di Emiliano Fedeli
Le Micro e le Piccole e Medie Imprese (PMI) non rappresentano solamente l’ossatura del nostro tessuto produttivo. Esse hanno anche un riconosciuto valore sociale e culturale, frutto tanto delle vocazioni produttive italiane quanto di un preciso modo di fare impresa “dal basso”, storicamente abituato a puntare tutto sulle proprie risorse e capacità. Un modello che ha offerto un contributo fondamentale allo sviluppo economico italiano¹.
Negli ultimi tre decenni, tuttavia, Micro e PMI si sono dovute confrontare con mutamenti di contesto senza precedenti per magnitudine e rapidità. Le pressioni esterne, dettate in primis dalla globalizzazione e dalle transizioni tecnologico-produttive, hanno mostrato i limiti di una simile autonomia d’azione e della frammentazione del nostro tessuto economico.
La formazione, di fronte a questo scenario, può far accedere le imprese a conoscenze e competenze nuove e contribuire così al mantenimento della competitività. Micro e PMI hanno maturato nel tempo alcune caratteristiche distintive² nel loro rapporto con la formazione. Essa assume la funzione prevalente di supporto all’operatività quotidiana ed è per lo più incentrata su tematiche tecnico-specialistiche, venendo intesa come addestramento, spesso imitativo. Alla formazione si ricorre prioritariamente in risposta ad esigenze imminenti ed a fabbisogni già noti. Nel confronto internazionale, il CEDEFOP ha di recente rilevato che le PMI italiane in media erogano annualmente meno ore di formazione per dipendente, investono meno in essa e vi coinvolgono quote inferiori di personale, sebbene i risultati siano di molto migliorati negli ultimi anni. Anche il gap con le imprese di grandi dimensioni è maggiore in Italia rispetto alla media UE. Sostanzialmente, un quadro con ampie prospettive di miglioramento.
Sulla base di quanto appena delineato, in qualità di agenzia formativa Solco ha partecipato ad una indagine promossa dall’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI del Politecnico di Milano (qui è possibile scaricare il Report con i risultati) volta ad esplorare la domanda di formazione delle PMI italiane ed elaborare così risposte efficaci su più livelli. L’indagine, cui hanno collaborato diversi stakeholder del settore, ha previsto la somministrazione di un questionario ad un campione di oltre 500 imprese, statisticamente rappresentativo dell’universo nazionale delle PMI. Di seguito si propone un commento ai principali risultati emersi.
L’APPROCCIO DELLE PMI ALLA FORMAZIONE
Le PMI italiane dichiarano che il fine principale delle attività di formazione è il miglioramento della competitività di impresa (per il 64% delle imprese), seguito dalla volontà di mantenere in azienda i dipendenti di maggior talento (42%), che precede, seppur di poco, il miglioramento della capacità di innovazione. Ciò sembra indicare che la formazione è utilizzata anche come misura preventiva in risposta al labour shortage, considerato dalle imprese come la principale problematica con cui devono confrontarsi oggi.
Sebbene la metà delle imprese consideri la formazione come parte integrante della strategia aziendale, ciò non sembra confermato da quanto riportato sull’adozione di attività fondamentali quali la valutazione delle competenze presenti in azienda (solo il 15% delle PMI) e l’analisi previsionale (forecasting) dei relativi fabbisogni che emergeranno nel breve termine (11%). A ciò si aggiunge che, a fronte di un 70% di PMI che realizza un buon assortimento di attività formative (corsi strutturati, partecipazione a fiere, visite studio ma anche attività informali quali job rotation e programmi di affiancamento e mentoring), il rimanente 30% non svolge formazione ulteriore a quella obbligatoria o la fa limitandosi alle sole modalità informali ora richiamate. Queste imprese, pertanto, non attingono in alcun modo a fonti di conoscenza esterne, facendo leva unicamente su quelle di cui già dispongono, con un chiaro rischio di isolamento. Tra le ragioni del mancato ricorso ad attività formative più sofisticate figura in primis l’assenza di tempo da dedicarvi (per il 40% di tale gruppo di PMI), seguito dalla mancanza di una struttura organizzativa HR dedicata (32%) e dal non considerare prioritaria la formazione (23%). Effettivamente, l’impatto dei tempi di formazione sull’operatività e la mancata capacità di pianificare e gestire la formazione (ma anche di ottenere i finanziamenti disponibili) sono storicamente tra le principali barriere di accesso alla formazione per le PMI. Sembra dunque di poter dire che le attività formative sono ben lungi dal rientrare in piani strategici.
I CONTENUTI DELLA FORMAZIONE E LE MODALITÀ DI EROGAZIONE
Negli ultimi due anni, la gran maggioranza delle PMI (73%) ha svolto formazione su competenze tecnico-professionali legate al business aziendale – comprensive anche di soft skill funzionali all’operatività. A ciò segue l’ambito della digitalizzazione (61%) ed infine la transizione green (39%). Nelle intenzioni per l’anno successivo, tuttavia, quest’ultima è l’unica ad aumentare, mentre le altre si riducono; a trainare l’incremento è il fabbisogno di conoscenze sulle normative nazionali ed europee – dunque sugli adempimenti ambientali cui conformarsi – e sull’impiego di tecnologie per l’efficientamento ed il risparmio energetico, che emerge come la tipologia di intervento green di prioritario interesse per le PMI. Relativamente all’ambito digitale, nell’ultimo biennio hanno prevalso attività su software gestionali specifici per le funzioni aziendali (una PMI su tre), cui seguono gli strumenti di produttività individuale e le tecnologie 4.0. Intorno al 20% le PMI che hanno affrontato temi di digitalizzazione di base (alfabetizzazione sulla cybersecurity, adempimenti del GDPR, sistemistica), mentre meno del 10% ha svolto attività formative introduttive o applicative su tecnologie di frontiera (Intelligenza Artificiale, Quantum Computing, Blockchain, etc.). Nelle previsioni per l’anno a venire le priorità si distribuiscono in modo meno chiaro, riducendosi le tematiche prima in testa ed aumentando quelle in fondo, con una posizione stabile della digitalizzazione di base.
Venendo alle modalità formative, la lezione frontale in presenza rimane quella nettamente più utilizzata (quasi due imprese su tre negli ultimi 2 anni), ma un terzo delle PMI ricorre ormai anche alla formazione a distanza (FAD) sincrona, mentre solo una su cinque fa affidamento all’e-learning, seppur in aumento con ogni probabilità. Decisamente minoritarie modalità più sofisticate e interattive quali il business game (11%).
Contenuti e modalità formative riflettono dunque una prevalente visione basata sui fabbisogni formativi imminenti e per lo più tradizionale, ma emerge comunque uno sguardo sulle novità.
LA GESTIONE DEI PROCESSI FORMATIVI
Per l’erogazione della formazione oltre la metà delle PMI si rivolge agli enti formativi (58%) ed a seguire ai fornitori di soluzioni tecnologiche o ai singoli docenti (entrambi intorno al 35%); molto marginale, ed allarmante, il coinvolgimento di università e centri di ricerca (5%) e degli Innovation Hub (Competence Center, Punto Impresa Digitale, etc., 2%), questi ultimi nati proprio per servire in via prioritaria le PMI.
Meno della metà delle PMI affida all’esterno le attività ausiliarie al ciclo formativo, in primis azioni propedeutiche di ricerca finanziamenti, analisi dei fabbisogni e progettazione. L’affidamento ricade equamente su consulenti esperti in ambito formativo, professionisti (commercialisti e consulenti del lavoro per lo più), associazioni di categoria ed enti bilaterali. La scelta dei fornitori di formazione avviene prioritariamente sulla base di esperienze pregresse o su indicazioni della propria rete (professionisti o attori della rappresentanza), molto raramente a seguito di una ricerca autonoma.
Infine, in merito agli investimenti in formazione, il 32% delle PMI ricorre in prevalenza a risorse proprie, mentre un ulteriore 54% usa risorse sia interne sia esterne. Paradossalmente, le imprese classificate come piccole, che più di tutte dovrebbero beneficiare dei finanziamenti, investono risorse proprie in misura maggiore di quelle di medie dimensioni (differenza di circa il 10%). Tra le ragioni ipotizzabili, una minore conoscenza delle opportunità disponibili ed il peso significativo degli oneri amministrativi previsti dalla formazione finanziata.
CONCLUSIONI
Pur in presenza di imprese di eccellenza, ad elevata innovazione e con respiro internazionale, i risultati confermano che la maggioranza delle PMI italiane non fa un utilizzo strategico dei processi formativi, seguendo piuttosto il modello richiamato in apertura. Tra le diverse barriere che ostacolano tale maturazione, quella culturale ci sembra la più rilevante, in grado oltretutto di influenzare le altre. Senza la consapevolezza del ruolo giocato dalla conoscenza nell’attuale paradigma economico è difficile pensare ad investimenti seri in formazione che incidano sulla qualità di prodotti e servizi, sull’innovazione a supporto delle transizioni e sulla produttività. Al riguardo, non può essere trascurato che i piccoli imprenditori hanno in media livelli di istruzione molto modesti, fattore che l’Istat rileva essere correlato alla propensione a innovare, all’adozione di tecnologie ed alla stessa sopravvivenza di impresa. Serve dunque un forte sostegno culturale dell’ecosistema di riferimento. Gli enti formativi devono attuare un ruolo più consulenziale, anticipando i fabbisogni delle PMI e personalizzando contenuti, modalità e metodologie didattiche; gli attori della rappresentanza (datoriali e sindacali) devono fare un grande sforzo di sensibilizzazione e veicolare ciclicamente informazioni sugli scenari di settore, oltre a tutelare l’accesso delle imprese e dei lavoratori più a rischio. Infine, i fondi interprofessionali potrebbero ampliare le opportunità di accesso alla formazione per le PMI e destinare risorse per la personalizzazione di tutti i servizi del ciclo formativo. Nel tentativo di elaborare risposte efficaci su più livelli, gli stakeholder coinvolti nell’indagine qui descritta sono impegnati nella stesura di un documento con indicazioni politiche, destinato alle istituzioni.
1- Colli, A. (2010). La piccola impresa nello sviluppo economico italiano. In Libertà e benessere: l’Italia al futuro (pp. 191-222). Editore SIPI.
2- Varchetta, G., Cepollaro, G., Samuelli, F., Veronesi, F. (2006), Gestione delle risorse umane e management della «rincorsa». Una ricerca sulle pratiche e le competenze per la gestione delle risorse umane nelle piccole imprese, in «Sviluppo e organizzazione», n. 217