Se qualcuno negli anni passati mi avesse detto che la gente non ha voglia di lavorare, lo avrei senza ombra di dubbio definito un reazionario con ampie venature di qualunquismo. Ma ora mi capita sempre più spesso di sentire queste affermazioni non solo nei dibattiti televisivi, ma anche da operatori della somministrazione e delle Agenzie per il Lavoro (APL). Cioè da imprenditori che si occupano quotidianamente di domanda ed offerta. Ma allora cosa c’è di vero e come si presenta questo fenomeno oggi?
Intanto non credo che il tema delle dimissioni volontarie possa essere pienamente utilizzabile per spiegare un generale “ritiro” dal lavoro. Delle oltre 2 milioni di dimissioni registrate nel 2022, la gran parte è da attribuire ad un cambio di lavoro e dunque ad una crescente mobilità, non al rifiuto del lavoro in sé.
Al di là di questo aspetto, il problema rimane e penso che abbiano ragione sia quelli che sostengono che la voglia di lavorare persista, sia chi parla di lavoro rifiutato.
Anche noi, come Ente di Formazione ed APL, lo registriamo tutti i giorni: è sempre più difficile trovare allievi per i nostri corsi per camerieri ai piani o di sala, così come per assistenti familiari.
Ma allora cosa sta succedendo?
In passato il lavoro era elemento determinante per definire l’identità di una persona. Era la prima domanda che si poneva non appena conosciuto qualcuno. Oggi non è più così. I giovani in particolare cercano innanzitutto un equilibrio tra il lavoro e la vita privata; in buona sostanza, questi due ambiti vengono ad acquisire lo stesso valore.
Pertanto, nei settori dove è possibile conciliare vita e lavoro il problema del rifiuto non si pone, o comunque in modo molto meno marcato (è il caso dei settori manifatturieri, della logistica etc.). Allo stesso modo, sono rifiutati tutti quei lavori con condizioni poco concilianti, che prevedono ad esempio la turnazione nei fine settimana o di notte. In queste ultimi settori (es. socio-assistenziale, vigilanza privata, ristorazione/turismo) si pongono dunque questioni rilevanti in merito alle modalità organizzative, alla remunerazione ed ai benefit offerti. Tuttavia, proprio in essi registriamo spesso le condizioni di lavoro più precarie, se non l’assenza di tutele minime.
In questi giorni, i rappresentanti delle imprese del turismo e della ristorazione alzano grida di dolore sulla mancanza, nel Lazio, di ben 35.000 lavoratori. A mio modo di vedere sono poco convincenti le risposte: “chiediamo politiche attive alla Regione” e poi “parliamo con le scuole alberghiere”.
Quello che manca, anche tra chi rappresenta le imprese, è una visione sistemica e proposte di trattamento dei lavoratori che “invoglino” a scegliere questi lavori (turni festivi, remunerazioni, welfare).
Salvo Messina,
Presidente Solco