Il lavoro povero è un tema di interesse anche per le aziende oppure riguarda solo un ipotetico intervento dello Stato e dei contratti collettivi?
Come ben sappiamo questo fenomeno coinvolge una fetta importante della popolazione lavorativa (circa il 13%) che guadagna 903 euro al mese (10.840 euro all’anno e questa cifra rappresenta il 60% del reddito medio nazionale).
Siamo in presenza di persone che a fronte di un lavoro più o meno stabile percepiscono questo tipo di retribuzione.
Chi ha studiato a fondo il fenomeno fa risalire le cause di tutto questo a salari stagnanti, all’aumento del tempo parziale e ai cambiamenti della struttura produttiva. Certo questo non si riscontra tanto nella manifattura ma soprattutto nei servizi (pulizie, commercio, ecc.) in attività, cioè, che potremmo definire a scarso valore aggiunto.
Mentre nel passato un lavoro pagato poco rappresentava solo la fase iniziale della vita lavorativa di un individuo, oggi, in molte situazioni, rappresenta la condizione definitiva, risulta quindi evidente come in molte situazioni a scarso salario corrispondono prestazioni povere.
Io penso sinceramente che questo destino non sia del tutto ineludibile.
Si tratta al contrario di fare scelte complessive per migliorare significativamente la produttività anche di settori a scarso valore aggiunto. Per le piccole aziende si tratterebbe di investire nelle proprie risorse umane, nella qualità dei propri servizi e sulla possibilità di aumentare sensibilmente la fidelizzazione dei propri clienti.
Noi, ad esempio, supportiamo un’azienda che ha fatto della cura delle proprie risorse un elemento importante della politica aziendale: contratti a tempo indeterminato, formazione costante, loro coinvolgimento nella gestione.
Investire nelle proprie risorse, a mio modo di vedere, rappresenta la leva più importante per competere.
Salvo Messina,
Presidente Solco