L’Istat ha diffuso nei giorni scorsi i dati sull’occupazione femminile. L’occasione, tanto più vista l’imminenza dell’otto marzo, ci consente di provare a sviluppare qualche riflessione sull’annosa questione.
Secondo l’Istat, negli ultimi 10 anni le donne che lavorano sono cresciute di un milione, passando dal 39,4% al 42,2% sul totale degli occupati. Questo trend di crescita viene confermato anche dai dati congiunturali: nel 2023, rispetto all’anno precedente, l’occupazione femminile è aumentata del 2,4%. Dal confronto internazionale, ad ogni modo, dobbiamo prendere atto del significativo ritardo dell’Italia rispetto ai paesi più sviluppati.
Ma la domanda che vogliamo porci è se sia sufficiente fermarsi al dato complessivo (come si tende a fare in particolare nelle analisi “di genere”) oppure se serva provare ad andare un po’ più a fondo e ragionare in maniera più articolata. Nel secondo caso, scopriamo che il tasso di occupazione femminile passa dal 66% del Trentino al 30% delle regioni meridionali. Così come scopriamo che da sempre nei grandi Comuni italiani le donne occupate sono più degli uomini. Come si vede, il tasso di occupazione femminile risulta molto più basso in quelle aree in cui i livelli occupazionali complessivi sono inferiori; le donne occupate sono sotto la media proprio perché c’è meno lavoro per tutti ed intuitivamente si può concludere che nel mercato del lavoro gli uomini continuano ad avere maggiori possibilità.
Ho letto in questi giorni alcuni commenti che fanno risalire il gap occupazionale alla mancanza di strutture di assistenza per i bambini o comunque di politiche a supporto della famiglia. Certamente queste ultime potrebbero aiutare, ma continuo a pensare che non bastino. Così come penso che il tema dell’istruzione (ripreso in qualche commento) ha senso, ma non spiega il fenomeno. È vero che le donne laureate sono più occupate (il 68,5%) rispetto a quelle che hanno solo la licenza media (solo il 18,5%), risultando più competitive nel mercato meglio, ma restano le questioni strutturali.
Detto in altri termini, per trovare serie risposte alla questione femminile bisogna affrontare il problema dei ritardi territoriali, immaginare politiche articolate di sviluppo che facciano leva sulle risorse presenti nelle diverse realtà. In assenza di simili politiche è del tutto velleitario pensare di trovare risposte e risultati rilevanti.
In un mio articolo recente, provavo a ragionare sullo Stato come datore di lavoro di ultima istanza. Forse bisognerebbe pensarci sul serio, immaginando progetti che diano lavoro alle donne – ma non solo – volti a colmare i ritardi di sviluppo dei nostri territori.
Salvo Messina
Presidente Solco