L’Inapp ha di recente pubblicato il Rapporto annuale di monitoraggio in tema di apprendistato in Italia. Come spesso accade, temo che ad esso seguirà qualche articolo sulle pagine economiche dei quotidiani o al massimo un commento attento ed informato della Fondazione Adapt (fondata dal giuslavorista Marco Biagi) e nulla più. Finirà nel cassetto, fino al prossimo Rapporto da pubblicare l’anno prossimo. Purtroppo, queste occasioni non rappresentano reali occasioni per riflettere sull’uso di simili strumenti e sulle necessarie modifiche che andrebbero introdotte per migliorarne l’efficacia.
L’ultimo Rapporto (su dati del 2022) ci dice che l’apprendistato per l’acquisizione di una qualifica ed il diploma professionale ed anche quello di alta formazione e ricerca mostrano un aumento dei giovani coinvolti, migliorando i risultati degli anni precedenti. Ma siamo ancora a numeri risibili, che ci fanno dire che in Italia non ha alcun senso parlare di sistema duale. Il 97% dei contratti sono infatti appannaggio del cosiddetto apprendistato professionalizzante: 556.181 contro soli 13.082 apprendisti coinvolti nelle altre tipologie contrattuali. L’apprendistato rappresenta sostanzialmente uno strumento di primo inserimento nel mondo del lavoro.
La lettura dei dati ci segnala e conferma tutte le problematiche e, in qualche caso, le distorsioni del nostro mercato del lavoro. Il primo aspetto su cui soffermarsi è certamente quello relativo alle caratteristiche che un contratto di apprendistato dovrebbe avere. Infatti a fronte di un quasi totale abbattimento degli oneri sociali fino a tre anni (quattro in caso di assunzione a tempo indeterminato), il contratto è definito “a causa mista” poiché dovrebbe prevedere lavoro ed anche specifiche attività formative. La formazione (120 ore in tre anni) deve essere realizzata fuori dall’azienda presso enti accreditati, ma cosa succede nei fatti? Le Regioni dovrebbero predisporre piani formativi per le PMI (con costi a carico delle stesse Regioni), ma l’offerta formativa risulta nei fatti molto al di sotto dei fabbisogni. Così solo il 21% degli apprendisti viene coinvolto in formazione e la gran parte al Nord (ben 73mila sui 120mila formati in Italia). Al Sud siamo all’assurdo. In Sicilia, per fare solo un esempio:
- anno 2020: apprendisti contrattualizzati 23.297, apprendisti formati 18;
- anno 2021: apprendisti contrattualizzati 24.964, apprendisti formati 0;
- anno 2022 apprendisti contrattualizzati 25.869, apprendisti formati 92.
Come già anticipato, il contratto di apprendistato perde dunque la sua essenziale caratteristica duale, divenendo solo uno strumento di ingresso nel mondo del lavoro a costi molto più bassi.
Altro dato sul quale si può fare qualche riflessione riguarda le cessazioni: la quota maggiore non attiene alle “non trasformazioni” (45mila), ma alle dimissioni (162mila!), che avvengono per la gran parte entro il primo anno. Ciò attesta che, a fronte della volontà delle imprese di mantenere in organico gli apprendisti, la qualità del lavoro offerto non sempre risulta molto apprezzata. Caso particolare è quello dei settori turismo e commercio, nei quali si registra il maggior numero di apprendisti attivati (166mila) ma dove la durata media dell’apprendistato si attesta a 6 mesi (che è la durata minima), a fronte di una media generale di oltre 19 mesi. Questi dati scontano ovviamente la stagionalità dei relativi settori, ma riflettono anche la scarsa qualità del lavoro offerto.
Mai come oggi l’Apprendistato, nella sua funzione duale che integra formazione e lavoro, potrebbe essere uno strumento prezioso di fronte alle grandi transizioni produttive ed alle criticità del nostro mercato del lavoro. L’obiettivo, mediante una attenta pianificazione formativa ed una sinergia ragionata tra pratica professionale e formazione, dovrebbe essere quello di creare occupazione di qualità e di far maturare competenze in grado di promuovere innovazione nelle imprese, elementi di cui abbiamo drammaticamente bisogno.
Salvo Messina
Presidente Solco