Anche questo anno il Rapporto dell’Inapp fa il punto sulle dinamiche demografiche e ripercussioni sul mercato del lavoro, le politiche del lavoro e la formazione continua.
A differenza degli anni passati il Rapporto risulta forse un po’ troppo tiepido sui giudizi sulle politiche e, forse eccessivamente “istituzionale”. Ma nonostante questo sollecita alcune riflessioni almeno su due piani.
Nonostante l’eccessiva prudenza nel valutare le politiche pubbliche relative a queste nostre questioni il giudizio sugli incentivi occupazionali appare abbastanza netto. “….. è d’uopo ricordare come numerosi studi concordino sul fatto che la maggior parte degli incentivi all’assunzione (nel settore privato) abbiano un effetto moderato, se non addirittura nullo, sulla crescita netta dell’occupazione” così recita appunto il Rapporto fornendo una serie di dati e riflessioni che non lasciano adito a interpretazioni. Analizzando i dati si scopre che l’incentivo viene utilizzato in particolare nei servizi dove l’occupazione è tornata a crescere dopo la pandemia a ritmi sostenuti e crescono le assunzioni sia incentivate che no. La cosa più paradossale riguarda le donne: gli incentivi più che avere un ruolo correttivo sono finiti per aumentare le loro fragilità nel mercato del lavoro.
Infatti “nel complesso le assunzioni tramite incentivo continuano a riprodurre e non a correggere le criticità del mercato del lavoro, specificatamente femminile”. Per fare un esempio la quota di part time con assunzioni agevolate è superiore a quelle con assunzioni non agevolate (59,7%) e addirittura i contratti a termine part time riguarda le donne per il 77%.
Questi dati ci dicono in buona sostanza che gli incentivi occupazionali, quando non hanno addirittura effetti perversi, non hanno alcuna rilevanza per ciò che attiene l’occupazione aggiuntiva, e finiscono per seguire il naturale andamento dell’economia. A questo punto dovrebbe essere più che palese che il costo che lo Stato sostiene per questi interventi risulta del tutto ingiustificato.
Un secondo aspetto su cui fare qualche ulteriore riflessione riguarda la formazione degli adulti e più specificatamente quella continua.
I dati proposti confermano, ovviamente, quanto registrato sull’argomento dalla nostra ricerca sui bisogni formativi realizzata insieme al Politecnico di Milano. In Italia si fa ancora poca formazione degli adulti. E’ vero che i dati un po’ migliorano (due punti in più rispetto all’anno precedente raggiungendo l’11,6% della popolazione in età lavorativa) ma restiamo ancora sotto la media europea ed i Paesi leader raggiungono il 25%. Questo finisce per ampliare ulteriormente i ritardi di competenze necessarie. Basta pensare che il Cedefop sostiene che quasi il 90% delle professioni oggi richiede competenze digitali e che in Italia ha tali competenze solo il 45,9% dei nostri lavoratori.
D’altra parte un sistema produttivo fatto in larga misura di pmi fa molta fatica a realizzare attività formative capaci di colmare questo gap.
E’ dunque, assolutamente fondamentale pensare ad approcci formativi e a metodologie specifiche da proporre a queste imprese. Nel rapporto si fa riferimento, ad esempio, ad attività formative definite come micro Learning che prevede contenuti formativi brevi e facilmente assimilabili. Tali attività sono realizzate soprattutto nelle medie e grandi aziende, ma dovrebbero essere attivate proprio nelle pmi dove una formazione di questo tipo (digitalizza e a distanza) potrebbe risolvere alcune criticità (tempo, lavoratori che non possono essere distolti dal lavoro) che spesso impediscono l’avvio di specifiche azioni formative.
Salvo Messina.
Presidente Solco