Il fallimento dei recenti referendum sui temi promossi dalla CGIL ha avuto, se non altro, il merito di riportare all’attenzione il tema del lavoro e della sua evoluzione nell’attuale contesto economico.
Negli ultimi mesi ci siamo chiesti spesso come il lavoro, e la sua concezione, abbiano mutato segno e direzione. Continuiamo a interrogarci se non sia arrivato il momento di superare definitivamente una concezione novecentesca del rapporto di lavoro, in cui il posto veniva visto come il luogo del conflitto permanente.
È chiaro che, ancora oggi, in molte situazioni permangono condizioni da contrastare con politiche adeguate. E non si può certo affermare che il conflitto tra capitale e lavoro sia del tutto superato. Tuttavia, da tempo sostengo che bisognerebbe concentrare l’attenzione sulle cosiddette “zone grigie” – quelle aree di interesse comune come la produttività, le condizioni di lavoro, la formazione e lo sviluppo dell’impresa – dove è possibile costruire un nuovo terreno di confronto.
In questo quadro, il modello di riferimento non può più essere quello della fabbrica fordista né il posto di lavoro da difendere a ogni costo. Oggi, nella maggioranza dei casi, il problema non è tanto come licenziare un collaboratore, piuttosto come convincerlo a rimanere.
Basta osservare i dati sulle cessazioni dei rapporti di lavoro: i licenziamenti non superano il 10%, mentre il restante 90% è costituito da dimissioni volontarie. Lavoratori che scelgono di cambiare, di cercare altrove opportunità migliori.
Già cinque anni fa, Pietro Ichino, nel suo libro L’intelligenza del lavoro (2020), ci metteva in guardia: in un numero crescente di situazioni “sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore”. E ci ricordava quanto sia urgente il bisogno di parti sociali capaci di sostenere processi di coinvolgimento e di costruzione di reali spazi di partecipazione.
In ultima istanza, si tratta di spostare l’attenzione: non più solo la difesa del posto di lavoro, ma la centralità della persona, con percorsi individuali di supporto nella transizione da un lavoro all’altro.
Un altro tema che solleva spesso discussioni è quello della precarietà. Ma cosa intendiamo davvero con questo termine? In genere, si fa riferimento a una condizione di incertezza rispetto alla durata di un impiego e alla continuità occupazionale. Ma qual è oggi la reale portata di questo fenomeno?
In una recente trasmissione televisiva, una nota giornalista citava il dato secondo cui il 37% degli avviamenti al lavoro sarebbe a tempo determinato, per sottolineare la precarietà vissuta dai giovani. Peccato che confondesse, come spesso accade, i dati di flusso con quelli di stock.
È vero. Su 100 assunti, 37 hanno inizialmente un contratto a tempo determinato. Ma la gran parte di questi viene poi trasformata in un contratto stabile. Se guardiamo i dati di stock, scopriamo infatti che solo il 13% degli occupati ha oggi un contratto a termine. Una percentuale, tra l’altro, in costante diminuzione (-3% negli ultimi tre anni).
Spesso ho l’impressione che sia più comodo parlare genericamente di precariato, piuttosto che affrontare un problema ben più serio: quello del lavoro povero e della sottoccupazione. Affrontarlo significherebbe entrare nel merito della contrattazione e del salario minimo. È lì che si gioca, oggi, la vera partita del lavoro.
Salvo Messina
Presidente Solco