Articolo di Emiliano Fedeli.
A distanza di 50 anni dall’introduzione delle cosiddette “150 ore per il diritto allo studio”, il 7 novembre la FIOM-CGIL nazionale ha organizzato un incontro di approfondimento su questo istituto contrattuale e sugli sviluppi più attuali del diritto all’apprendimento permanente, coinvolgendo docenti universitari, ricercatori e membri del sindacato. Abbiamo assistito all’incontro e ne riportiamo di seguito i punti salienti, aggiungendo alcune considerazioni sullo scenario odierno della contrattazione formativa.
Il 19 aprile 1973 la Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), che univa le federazioni metalmeccaniche di CGIL, CISL e UIL, sottoscrisse il suo primo rinnovo contrattuale. Con l’articolo 28, si introduceva in Italia il diritto a dei permessi retribuiti per finalità di studio, da godere in un triennio nella misura di 150 ore. La formazione ammissibile doveva essere di cultura generale ed erogata da istituti pubblici, dunque estranea ai processi produttivi. La scuola e l’università si avvicinavano così ai luoghi di lavoro e gli operai ed i sindacati entravano a loro volta nelle istituzioni educative.
Le ragioni e la portata di questo istituto contrattuale sono da ricondurre alle strategie di rivendicazione sindacale di quel periodo. L’ottenimento delle “150 ore” va letto insieme alla conquista, nello stesso rinnovo contrattuale, dell’inquadramento unico tra operai e impiegati, ispirato ai principi dell’egualitarismo: gli operai avrebbero beneficiato di migliori regimi normativi (indennità economica, ferie, trattamenti di malattia, ecc.) ed il loro lavoro sarebbe stato valutato per la capacità professionale dimostrata, non per il proprio status, stimolando la mobilità orizzontale e verticale.
I permessi di studio rientravano dunque in un progetto politico più ampio. Nelle intenzioni della FLM, le attività formative avrebbero dovuto incrementare negli operai la consapevolezza della propria condizione, oltre ad offrire l’opportunità di unire gli interessi della classe lavoratrice con quelli di studenti e docenti, ma anche di cambiare da dentro le istituzioni educative e formative, che in virtù della matrice gentiliana erano accusate di replicare i meccanismi di divisione del lavoro oggetto di critica sindacale e politica.
Soffermandosi sul piano formativo, le iniziative delle “150 ore” hanno offerto un grande contributo allo sviluppo delle politiche di educazione degli adulti del nostro paese. Nella maggioranza dei casi furono dedicate all’assolvimento dell’obbligo scolastico, affiancandosi ai percorsi serali già esistenti, associati dai lavoratori a vissuti di marginalità e alienazione. Di grande originalità furono poi i seminari universitari monografici, dedicati all’organizzazione del lavoro, alla salute e alla sicurezza, alla vita fuori dalla fabbrica ed alle tematiche di genere (nel 1976 nasce il Coordinamento nazionale delle delegate FLM). Rapidamente, la platea dei partecipanti si estese a disoccupati, precari e casalinghe. Per la prima volta, tanto più nei contesti accademici, i corsi venivano organizzati sulla base delle esperienze e delle conoscenze degli allievi, applicando uno dei principi fondamentali dell’andragogia, modello teorico che descrive i principi dell’apprendimento degli adulti. I seminari assunsero spesso le modalità della conricerca, traducendosi in inchieste sulle condizioni di vita in fabbrica.
Negli anni ‘80, le iniziative si concentrarono maggiormente sugli impatti dell’innovazione tecnologica ed offrirono corsi di formazione sindacale, dai quali uscì un buon numero di quadri. La vitalità e le stesse adesioni andarono tuttavia scemando, per ragioni afferenti ai mutati scenari produttivi, alle nuove priorità sindacali, ai cambiamenti nella stessa cultura lavorativa – più improntata alla personalizzazione dei percorsi professionali – ed ai progressi nell’alfabetizzazione della popolazione.
Venendo all’attuale scenario dell’apprendimento permanente, le innovazioni tecnologiche e le grandi transizioni in corso elevano il ruolo della formazione e chiamano il sindacato ad un maggiore protagonismo. L’istituto delle “150 ore” è tuttora presente nel contratto dei metalmeccanici e negli anni è stato adottato da numerosi altri CCNL. Per i metalmeccanici, la misura è stata affiancata nel 2016 dal cosiddetto “diritto soggettivo alla formazione”, che prevede un monte orario triennale di 24 ore per attività formative legate alla sfera professionale; ciò rappresenta un ulteriore passo per garantire effettive opportunità di apprendimento permanente, vincolando però le proposte formative all’iniziativa del datore di lavoro. A seguito del rinnovo del 2021, le parti firmatarie hanno definito una programmazione congiunta dei contenuti formativi e realizzato una infrastruttura digitale – MetApprendo – che consente l’accesso all’offerta formativa disponibile, la fruizione gratuita online e la messa in trasparenza degli apprendimenti conseguiti, sfruttando la tecnologia blockchain. A beneficiare di questi servizi formativi saranno principalmente i lavoratori delle PMI.
Volendo ampliare lo sguardo alla contrattazione formativa in Italia, il quadro che emerge presenta più ombre che luci. L’ultimo rapporto OCSEL della CISL, dedicato alla contrattazione di secondo livello, rileva che soltanto l’11% degli accordi aziendali sottoscritti nel 2019 avesse ad oggetto la formazione, con una forte eterogeneità settoriale e dimensionale: se il dato sale al 70% nel settore manifatturiero, si ferma invece al 19% nel terziario ed al 9% nei servizi. Tra le imprese con 10-20 dipendenti è inferiore al 10%, mentre raggiunge il 50% per le grandi aziende con oltre 1.000 dipendenti. Questi pochi numeri sono sufficienti a definire le prime priorità di azione per il sindacato.
Entrando nel merito della contrattazione formativa condotta dal sindacato, la letteratura ne rileva un ruolo marginale che si limita per lo più ad approvare decisioni già prese dal datore di lavoro. Al di là di singoli casi virtuosi, risulta episodico il coinvolgimento o l’iniziativa sindacale in attività strategiche quali l’analisi dei fabbisogni, la definizione di programmi e contenuti della formazione, il presidio delle pari opportunità di accesso ai percorsi formativi o la certificazione delle competenze. Sembra mancare una visione organica sul ruolo che può svolgere la formazione per il miglioramento della qualità del lavoro e più in generale come nuova forma di tutela del lavoro.
Gli ultimi due decenni hanno visto moltiplicare i dispositivi normativi che prevedono l’intervento delle parti sociali in materia di formazione e riqualificazione: oltre ai fondi interprofessionali, è bene ricordare la recente esperienza del Fondo Nuove Competenze e le misure introdotte dalla riforma degli ammortizzatori sociali, tra cui l’accordo di transizione. Le evidenze brevemente riportate attestano l’esigenza per il sindacato di qualificare maggiormente la sua azione, assumendo così un nuovo protagonismo di fronte alle sfide dell’economia della conoscenza.
In conclusione, segnalo con piacere che nel 2022 ho avuto il piacere di curare, insieme ad autorevoli esponenti del sindacato e della formazione continua, il “Vademecum per la contrattazione dei piani formativi”, che descrive le priorità di azione e gli strumenti disponibili per una negoziazione efficace.
Per maggiori approfondimenti, il Vademecum è disponibile e acquistabile qui