C’è da rimanere esterrefatti nel leggere le prime ipotesi di Riforma del Reddito di Cittadinanza (Corriere della Sera del 7 novembre).
Secondo quanto pubblicato dal giornale, la proposta prevede che, dopo 18 mesi senza essere stati avviati ad un lavoro, ai percettori di reddito di cittadinanza vedrebbe sospeso il beneficio per 6 mesi, con il contestuale invio a corsi di formazione professionale. Dopo i 6 mesi, si tornerebbe a percepire il reddito con una decurtazione del 25%. E così via.
La cosa veramente sorprendente è che il percettore sarebbe obbligato alla formazione dopo 18 mesi; perché invece non cominciare subito, volendo anche con progetti di pubblica utilità? E, in ogni caso, perché non immaginare progetti di coinvolgimento dei nostri percettori in attività utili all’inserimento lavorativo?
Ovviamente, si fa qui riferimento a quei soggetti occupabili e non a quelli che non possono essere occupati per ragioni diverse, né a quel 20% di percettori che già possiedono un lavoro (povero); in questi casi il provvedimento assume il carattere di un intervento sociale contro la povertà.
Per non parlare poi della foglia di fico della cancellazione del reddito dopo un rifiuto di un posto di lavoro congruo. Ma di cosa stiamo parlando? Qui si tratterebbe di sapere se c’è qualcosa da rifiutare. L’incontro tra domanda ed offerta di lavoro non avviene, se non marginalmente, presso i Centri per l’Impiego; tutti sanno che meno del 3% degli avviamenti al lavoro avviene presso i CPI (in gran parte collocamento obbligatorio – quello dei disabili per intendersi – e per qualifiche medio/basse).
Il Rapporto annuale su “Lavoro e Formazione” dell’Inapp sostiene “[…] sia i CPI che le politiche attive nel complesso restano ben lungi dall’essere ottimali: essi non riescono ad essere efficaci intermediari in posizioni ad alta professionalità, ma neanche nelle occupazioni a bassa specializzazione”.
Un giudizio così critico è espresso da un Istituto pubblico sotto la sorveglianza del Ministero del Lavoro.
Ci sarebbe bisogno di politiche attive vere, capaci di prendere in carico il singolo possessore del reddito ed accompagnarlo nella ricerca di un lavoro, con strumenti flessibili e da adattare al singolo soggetto. Al contrario, gli strumenti di politiche attive del lavoro non solo sono scarsi e mal finanziati, ma quel che è peggio è che sono rigidi e maledettamente burocratizzati. Chi opera nel settore si lamenta da sempre di tutto questo, ma totalmente inascoltato.
Salvo Messina,
Presidente di Solco