La ricorrenza dell’8 marzo ci obbliga a riflettere sulle condizioni lavorative riservate alle donne. La questione viene spesso affrontata con un approccio polarizzato. Da un lato si mettono in risalto i tanti ritardi e le discriminazioni presenti, dall’altro si sottolineano i risultati positivi conquistati negli in anni recenti.Personalmente, pur riconoscendo che sono ancora molte le cose da cambiare, resto convinto che il tema continui ad essere affrontato con le stesse argomentazioni degli ultimi 30 anni. Ma ovviamente non è così. Sono cambiate molte situazioni e sono cambiati in maniera sostanziale i numeri. Se si vogliono avviare vere politiche attive su questo versante, si deve partire proprio da quello che è cambiato e che cambia in continuazione.
Intanto, a mio modo di vedere, è fuorviante fermarsi ai dati generali, come si tende a fare normalmente. Certo il tasso di occupazione femminile in Italia è ancora significativamente più basso di quello maschile, così come sono più bassi in media i salari. E questi sono dati acquisiti. Ma proviamo ad andare un po’ più in profondità; considerando le tendenze degli ultimi decenni, il divario occupazionale di genere si è più che dimezzato: dal 41% del 1977 siamo passati al 18% e questo è stato possibile per la diminuzione di 7 punti percentuali degli uomini occupati (dal 74% al 67%) e del parallelo aumento di quello femminile (passato da un terzo al 49,5%). Addirittura, nei grandi comuni italiani e nel Nord d’Italia la percentuale di donne occupate ad oggi supera quella maschile, attestandosi al 59,7%. Ma nel sud la partecipazione femminile non supera il 32,2%.
Inoltre, dal confronto tra il tasso di occupazione generale quello femminile emerge una riflessione ulteriore: dove il tasso complessivo è più basso, infatti, le donne che lavorano sono di meno. Dunque esiste una forte correlazione tra scarso sviluppo economico e bassa occupazione femminile. In queste situazioni, senza affrontare il tema dello sviluppo non si può affrontare la specificità “femminile”.
Così come andrebbero pensate politiche ad hoc contro il lavoro povero, che è maggiormente diffuso tra le donne (poiché più spesso impiegate con part-time involontario e in lavori meno qualificati, senza dimenticare una discriminazione salariale di fondo). Questo aspetto presuppone una più seria ed articolata riflessione non solo sugli imprenditori che si approfittano della situazione, ma soprattutto sulla qualità del lavoro, delle prestazioni e dei servizi. Si offrono molto spesso prodotti e servizi poveri e si pagano con salari poveri. È questo il circolo vizioso che si dovrebbe rompere.
Infine, nello sviluppo delle carriere all’interno del singolo posto di lavoro ci sarebbe bisogno di politiche di crescita e di strumenti per una vera parità di genere. Resto convinto che valorizzare tutte le risorse, nel nostro caso a partire da quelle femminili, dovrebbe essere l’interesse principale di un datore di lavoro attento al futuro della propria azienda.
Salvo Messina,
Presidente Solco