Sono passati quasi 30 anni dalla pubblicazione del saggio di Jeremy Rifkin “La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato”, in cui si preconizzava la sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine – cui oggi potrebbe aggiungersi l’intelligenza artificiale. Sull’onda di queste previsioni, si è sviluppata negli anni un’ampia letteratura catastrofista, culminata recentemente nelle tesi sul rifiuto del lavoro, anche alla luce del fenomeno delle cd. “grandi dimissioni” (si veda su tutti il libro omonimo di Francesca Coin).
Se però leggiamo i dati sull’andamento dell’occupazione si scopre che essa continua a crescere incessantemente. In Italia abbiamo superato i dati pre-Covid ed addirittura si è ridotta di quasi un milione (circa un terzo del totale) la platea dei NEET (dati 2018-2023), uno dei fenomeni più difficili da contrastare del nostro paese. Negli Stati Uniti, invece, a marzo gli occupati sono aumentati di ben 300.000 unità, cui si aggiunge che per ogni disoccupato sarebbero disponibili 1,36 posti di lavoro vacanti. Dati sorprendenti se pensiamo che si tratta di uno dei paesi con la maggiore intensità tecnologica.
E dunque di quale fine del lavoro stiamo parlando? Nonostante le cassandre del catastrofismo, il lavoro non solo non collassa, ma addirittura continua a crescere. Ho come l’impressione che nelle analisi di certi economisti e sociologi del lavoro siamo ancora al luddismo (il movimento di protesta operaia del XIX secolo che distruggeva i telai meccanici poiché accusati di gettare nella disoccupazione centinaia di lavoratori).
Certamente, come sostiene il professor Carboni in un recente articolo sul Sole 24 Ore, la storia ci insegna che la quantità di tempo che gli individui dedicano al lavoro tende a ridursi, in favore di un migliore equilibrio tra lavoro e vita. E questo certamente è un bene. Ma quello che sorprende è che mancano nuovi paradigmi per guardare ai cambiamenti in corso nel lavoro: cosa genera gli squilibri nell’incontro tra domanda ed offerta? Da cosa sono motivate le mutate aspettative e la cultura lavorativa delle nuove generazioni?
Al di là dei buoni numeri sull’occupazione, la realtà del mondo del lavoro testimonia ancora tante difformità tra chi lavora troppo e chi lavora poco (pensiamo ad esempio al part time involontario, che colpisce principalmente le donne), ma anche fenomeni emergenti quali la difficoltà delle imprese a reperire manodopera, con la conseguente persistenza di un elevato tasso di posizioni vacanti.
Invece di preoccuparci della fine del lavoro, faremmo bene ad interessarci alle sue nuove geografie.
Salvo Messina
Presidente Solco