Il mese di dicembre è per tradizione il mese di presentazione dei Rapporti annuali. Dopo quello del Censis e di Svimez è stata la volta di quello dell’Inapp (ex Isfol, per intendersi). Il rapporto come sempre si sofferma su mercato del lavoro, politiche del lavoro e formazione e rappresenta indubbiamente una fonte molto importante di dati e spunti di riflessione.
Personalmente, ho trovato molto coraggiose le valutazioni relative alle politiche attive ed agli incentivi per l’occupazione. Vorrei richiamare l’attenzione su quattro punti, relativi a temi su cui mi sono soffermato più volte nel corso dell’anno.
Primo punto
Inapp ci dice che parlare di grandi dimissioni dal lavoro è certamente esagerato, al massimo possiamo parlare di “grandi ricollocazioni”: più del 60% trova una nuova occupazione nel mese successivo. A voler cambiare lavoro sarebbero principalmente i lavoratori con un reddito intorno ai 15.000 euro. Meno interessato, invece, chi percepisce un reddito medio-alto. La possibilità di lasciare un lavoro appare in larga misura da connettere al desiderio di un reddito maggiore e/o di un ambiente di lavoro migliore.
Secondo Punto
Il Rapporto poi dedica uno spazio molto importante al tema della qualità del lavoro. Trovo particolarmente illuminante quello che Inapp definisce la polarizzazione della qualità del lavoro.
Da una parte alto livello di qualità (uomini, alte qualifiche, occupati del Centro-Nord) e dall’altra basso livello (donne, giovani ed occupati del Mezzogiorno).
Le imprese che riescono a coniugare buona gestione delle risorse umane e buone performance produttive sono caratterizzate da almeno 50 addetti, si trovano nel Nord-Est e con un buon numero di diplomati e laureati. La cosa interessante sottolineata nel Rapporto, che non sembra avere influenza in questi risultati, è la presenza o meno di una contrattazione di secondo livello o la presenza di RSU, mentre c’è forte correlazione tra qualità del lavoro e partecipazione degli addetti ad attività formative (coinvolgimento di almeno l’80% dei collaboratori).
Terzo punto
I dati confermano la scarsezza degli investimenti in politiche attive: l’Italia investe solo lo 0,026% del PIL, contro una media europea dello 0,2%, e la cosa più inquietante è che dal 2008 al 2020 la spesa si è ridotta del 32%. Al contrario, è cresciuta a dismisura la spesa per politiche passive (cassa integrazione per fare solo un esempio): dal 2008 al 2020 ha registrato un +273%. Proprio in presenza di una crescita così rilevante avremmo avuto bisogno di maggiori politiche attive, proprio al fine di supportare processi di mobilità e ricollocazione.
Se questo è il quadro generale forse potremmo smettere di sorprenderci (come ci ricorda il Rapporto) che nei Centri per l’Impiego si intermedia solo il 3% dell’incontro tra domanda ed offerta.
Quarto punto
E qui veniamo alla questione che considero più coraggiosa.
Senza particolari giri di parole il Rapporto ci dice che solo il 4,5% delle imprese intervistate dichiara di aver realizzato assunzioni per via dell’esistenza di un incentivo specifico. Anche in assenza dello stesso, tutte le altre aziende avrebbero comunque conseguito la stessa quota di assunzioni.
I dati mostrano altresì che gli incentivi non hanno nemmeno contribuito alla riduzione della disparità di genere. Le aziende li hanno utilizzato e continueranno a farlo per abbattere i costi del lavoro.
E allora, insieme all’Inapp, ci chiediamo: ha ancora senso investire risorse pubbliche ingenti per risultati così modesti?
Per il nuovo anno ci auguriamo che tutti gli stakeholder, a partire dalle istituzioni, si pongano in un reale ascolto di queste indagini e facciano ad esse riferimento per la definizione delle misure politiche.
Salvo Messina.
Presidente Solco