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Un nuovo sguardo per comprendere e contrastare la povertà lavorativa

di Emiliano Fedeli.

 

Il recente “Rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia 2023” della Caritas Italiana ha dedicato una sezione al tema della povertà lavorativa. Essa è definita come la condizione di chi, pur risultando occupato, vive in una famiglia con un reddito netto equivalente inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. Nel 2022, sotto tale soglia (circa 930 euro al mese) rientrano secondo l’Istat circa 2,5 milioni di lavoratori dipendenti italiani, l’11,4% degli occupati di tale categoria, i cosiddetti working poor.

Meritoriamente, la Caritas prova ad arricchire la narrazione sulla povertà lavorativa partendo dalla voce di chi ne è colpito. L’ente si fa così promotore di una prospettiva di indagine centrata sulla persona, approfondendo le implicazioni della povertà per la qualità della vita e la salute. Ma una simile postura suggerisce anche di rivedere le politiche di contrasto al fenomeno.

La povertà lavorativa è una delle lenti con cui poter osservare i cambiamenti del lavoro avvenuti negli ultimi decenni, in Italia e non solo. Il fenomeno, infatti, riflette i mutamenti del quadro economico, produttivo e sociale occorsi a livello internazionale, nonché le modalità con cui essi si sono realizzati nel nostro paese: la terziarizzazione dell’economia, i grandi processi di esternalizzazione dei servizi, la pressione concorrenziale della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica e la connessa difficoltà delle micro-imprese e delle PMI a farvi fronte, la conseguente stagnazione della produttività, ma anche i nuovi orientamenti della legislazione giuslavoristica e le difficoltà riscontrate dalla contrattazione collettiva (vedasi ad esempio la prolungata vacanza contrattuale che riguarda 31 categorie professionali).

Le dimensioni e l’aumento della povertà lavorativa hanno sollevato di recente l’interesse del mondo accademico, nonché della politica – la precedente legislatura istituì un Gruppo di Lavoro ad hoc – che hanno affrontato il tema da una prospettiva eminentemente tecnico-scientifica. Tuttavia, il fenomeno ha una significativa portata culturale, rischiando di minare alla base il patto costitutivo della società occidentale contemporanea, secondo cui lavorare garantirebbe in ogni caso una vita dignitosa. Alla luce di ciò, appare di estrema rilevanza approfondire anche l’impatto psicosociale della povertà lavorativa, rivolgendosi proprio a chi ne è colpito.

La Caritas ha dunque condotto una ricerca partecipativa: coordinati da ricercatori specializzati, un gruppo di operatori e volontari dell’ente, cui si è sommata una rappresentanza degli stessi di working poor, sono stati coinvolti nella definizione degli ambiti oggetto di indagine, nella rilevazione e nell’analisi dei risultati. Il gruppo ha realizzato delle interviste a 22 individui in condizione di povertà lavorativa, approfondendone la storia professionale, le preoccupazioni e le problematiche quotidiane, le aspettative sul futuro e le proposte per migliorare la propria condizione.

Ad accumunare gli intervistati è un percorso professionale quasi sempre eterogeneo e discontinuo, nei settori del terziario con maggiore incidenza di mansioni a bassa qualificazione. Molto diffuse la sottoccupazione (legata al part-time involontario) e forme di lavoro grigio, mentre non è stata indagata l’eventuale adesione a sigle sindacali. Dal punto di vista del vissuto individuale, la condizione di precarietà sperimentata, legata allo scarso salario e di frequente all’instabilità contrattuale, genera uno stato di preoccupazione costante per il soddisfacimento di bisogni e consumi primari, con il timore che una spesa imprevista faccia precipitare la situazione. La parola più citata dagli intervistati è “sopravvivere”.

Il vissuto ansioso relativo alle proprie condizioni materiali schiaccia le persone sulla quotidianità, impegnando gran parte delle risorse cognitive ed emotive disponibili. Una prolungata esperienza di questo tipo ha poi due ulteriori risvolti: da un lato provoca un senso di impotenza ed erode progressivamente la propensione a coltivare aspettative ed a progettare il futuro, facendo emergere possibili sintomi depressivi; dall’altro crea frustrazione e rabbia, alimentando potenzialmente la conflittualità intra-familiare, con un ulteriore peggioramento della qualità della vita. Il rischio è dunque quello di una spirale negativa che investe la salute mentale, le relazioni affettive più significative e la facoltà (materiale e psichica) di investire adeguatamente nei figli per elevarne le condizioni future.

Effettivamente, il legame tra precarietà lavorativa e sintomi ansiosi e depressivi è stato confermato anche da una recente meta-analisi sul tema. Da non sottovalutare, tuttavia, sono anche le più ampie ripercussioni sociali della povertà lavorativa. Non sembra azzardato ipotizzare che una diffusa condizione di precarietà, magari in territori o aree urbane economicamente depressi, generi un lento logoramento del tessuto sociale e una perdita di fiducia nelle istituzioni. Problemi che interessano la coesione e la più ampia tenuta democratica.

Infine, al di là delle implicazioni psicosociali, le storie dei lavoratori poveri invitano a ricalibrare ulteriormente il nostro sguardo sul fenomeno della povertà lavorativa. A dispetto di una narrazione – giornalistica, politica, ma anche scientifica – che spesso enfatizza le responsabilità dei singoli rispetto alle proprie condizioni materiali, le vite dei working poor appaiono influenzate da elementi contestuali particolarmente complessi, per lo più estranei alla intenzionalità individuale, se non lesivi della stessa: povertà intergenerazionale, carichi di cura e/o assistenziali elevati per la presenza di familiari con patologie o disabilità, difficoltà di accesso ai servizi essenziali per gli individui stranieri o con bassi livelli di istruzione, discriminazione sistemica insita nelle misure legislative (si veda da ultimo il Reddito di Cittadinanza, che ha discriminato i soggetti stranieri sebbene tra essi la povertà risulti di gran lunga più diffusa).

Di conseguenza, oltre alle necessarie azioni di livello politico-economico, il contrasto alla povertà lavorativa richiede la presa in carico di tale complessità, riconoscendo la natura multi-dimensionale dei bisogni degli individui. Soltanto un approccio basato sull’ascolto sistematico può riuscire a fornire risposte realmente mirate, come suggerito dai più attuali modelli di co-progettazione delle politiche sociali. Tra i servizi ipotizzabili rientrano forme di integrazione al reddito, supporto legale, servizi assistenziali e di consulenza psicoterapeutica, orientamento per le transizioni di carriera, percorsi di istruzione e di riqualificazione e molto altro.

Si criticano spesso le politiche sociali e del lavoro per il divario tra gli elevati investimenti richiesti ed i limitati benefici prodotti. Alla luce dell’urgenza del fenomeno descritto e dei rischi delineati, non sembra però esserci molta alternativa; forse è il caso di provare a modificare proprio gli schemi di progettazione e di erogazione.

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